
Nel primo capitolo di questa serie, avevo accennato alla Questione Meridionale Sanitaria come di uno dei problemi centrali del sistema sanitario italiano. Qui spiego a cosa mi riferivo.
Finanziamento regionale

Esiste una Questione Meridionale Sanitaria, intesa come grande disparità del Sud nei confronti del Nord in termini di qualità delle politiche sanitarie? Io penso proprio di sì. Prima di iniziare a parlare della frattura Nord-Sud però, è bene capire come le diverse regioni ricevono i fondi per la sanità. Prima di tutto, bisogna dire che il SSN è strutturato su tre livelli: nazionale (principalmente il Ministero della Salute), intermedio (gli assessorati alla sanità delle diverse regioni) e locale (ASL e Aziende Ospedaliere). Ciò detto, si può parlare del finanziamento, un processo “a cascata” diviso in quattro fasi:
- Si determina l’ammontare complessivo delle risorse da destinare al SSN, il Fondo Sanitario Nazionale;
- Il budget stanziato precedentemente viene ripartito fra le regioni;
- Ogni regione stabilisce il budget da destinare a ogni ASL, ed eventualmente anche AO;
- Con i soldi dati dalle regioni, le ASL pagano gli erogatori dei servizi sanitari, sia pubblici che privati
In questa sede, a noi interessano le prime due fasi.
Per quel che riguarda la prima, il FSN dovrebbe essere programmato ogni tre anni e calcolato in proporzione ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ovvero quelle prestazioni definite in sede governativa che il SSN si impegna a fornire in maniera gratuita (o con compartecipazione attraverso ticket) attraverso le risorse reperite grazie alla fiscalità generale, selezionati in base a criteri di necessità, efficacia e appropriatezza. Dico dovrebbe perché in concreto il governo si limita a riproporre il budget stanziato l’anno precedente e cerca di aumentarlo un po’, fra decurtazioni e revisioni di importi pattuiti. Nella prima fase inoltre, le regioni fanno blocco contro lo Stato per chiedere quanti più fondi possibile. Le fonti che alimentano il FSN sono le seguenti:

Scorporata una piccola quota (2%) destinata al finanziamento di programmi nazionali, il resto passa alle regioni.
Nella seconda fase le regioni lottano tra di loro per spartirsi il budget in base ai criteri a loro più graditi. Negli ultimi anni, sono stati tre i criteri adottati per la divisione dei fondi: il numero di residenti per regione, l’età della popolazione regionale (essendo la popolazione anziana strutturalmente più bisognosa dei servizi sanitari) e il benchmarking. Quest’ultimo è un processo attraverso cui si calcolano le risorse finanziare che il governo centrale deve trasferire alle singole regioni, individuando tre regioni che eccellono rispetto alle altre in efficienza e appropriatezza in termini di erogazione dei servizi sanitari e andando a vedere la spesa pro capite da loro sostenuta per assicurare i LEA (chiamata anche costo standard). Ciò dovrebbe spingere le altre regioni a colmare il divario con quelle virtuose. Tuttavia, alcune regioni (centro-sud) spingono perché si tenga conto anche delle condizioni socio-economiche della popolazione regionale.
Va poi menzionato un altro fattore fondamentale che determina la distribuzione delle risorse fra le regioni. Essendo il nostro un servizio sanitario nazionale, i cittadini possono scegliere, una volta in possesso dell’impegnativa del medico di famiglia, in quale ospedale farsi curare, eventualmente anche fuori dalla propria regione. Ogni sistema sanitario regionale è tenuto a rimborsare i ricoveri fuori regione dei propri assistiti, perciò la mobilità in uscita costituisce una spesa a carico del bilancio regionale, viceversa la mobilità in entrata è fonte di introiti.
Ora che abbiamo introdotto una bozza dell’architettura del sistema e i concetti più importanti per comprendere il problema, possiamo trattare degli indicatori fondamentali che dimostrano la presenza della Questione Meridionale Sanitaria. Un avviso: considereremo la divisione in senso “forte”, senza un Centro. Questo significa che il Lazio, il Molise, l’Abruzzo, l’Umbria e le Marche verranno considerate regioni del Sud, la Toscana invece regione del Nord.
Adempimento dei LEA e disagio economico
Il primo indicatore da cui possiamo partire è l’adempimento regionale dei LEA. Attraverso questo indicatore si può valutare la capacità dei servizi sanitari regionali di far fronte ai livelli di assistenza richiesti dal governo attraverso le risorse fornite. Qui la rielaborazione del Sole 24Ore del grafico del GIMBE, che ha monitorato l’adempimento dei LEA da parte delle regioni per gli anni 2010-2017:

Il rapporto, oltre a mettere in evidenza che il 26,3% (quindi circa 1/4) delle risorse assegnate alle regioni viene bruciato senza produrre alcun servizio, mostra come in effetti esista una discrepanza fra Nord e Sud in termini di adempimento dei LEA, evidente anche solo guardando la cartina. In effetti, la top 5 della classifica è occupata da sole regioni del Nord. Le uniche zone del Nord che non hanno un livello sufficiente di adempimento sono la Valle d’Aosta e Bolzano, mentre del Sud le uniche ad essere promosse sono Basilicata, Umbria e Marche. Ciò ha fatto parlare, con un misto di ironia e rassegnazione, di DEA, ovvero di Dislivelli evidenti di assistenza: ai cittadini del Sud, infatti, non viene riconosciuto nella pratica lo stesso diritto alla salute che invece è pressoché garantito nel Nord Italia.
La situazione è ancora peggiore se la si mette in relazione con un altro indicatore, ossia la quota sul totale regionale delle famiglie che dichiarano di non avere soldi per curarsi (Demoskopika 2019):

Stando al sondaggio, in tutta Italia, nel solo 2017, sono poco più di 1,5 milioni di famiglie a ritrovarsi nella condizione di non avere abbastanza denaro per affrontare le spese sanitarie necessarie. Ma è in particolare il Mezzogiorno ad esserne colpito. Mentre nel Nord, ad eccezione del Piemonte, la quota di famiglie in questa condizione sul totale regionale delle famiglie non supera il 5%, ogni regione del Sud supera questo valore, andando addirittura oltre il 10% in Campania (10,3%), Sicilia (14,3%) e Calabria (14,9%).

Come possiamo vedere da questo grafico (che mette in rapporto il numero delle famiglie disagiate per regione sul totale e ne fa una percentuale), più dei 2/3 delle famiglie che si ritrovano in questa condizione sono concentrate nelle regioni meridionali. Spiccano in particolare Sicilia (19%), Campania (15%), Puglia (10%) e Calabria (8%): le sole prime due assieme totalizzano una percentuale maggiore (34%) dell’intero Nord Italia (in cui il grosso è concentrato in Lombardia, 12%, e Piemonte, 8%).
La Mobilità Sanitaria Interregionale

Altro indicatore fondamentale è la mobilità sanitaria interregionale. Questa evidenzia l’efficacia e la qualità dei servizi sanitari regionali perché, al netto delle contingenze, andare fuori regione è una scelta che il paziente fa per trovare un servizio migliore (tempi di attesa più brevi, cure specialistiche garantite, trattamenti migliori ecc.). Qui si possono fare considerazioni sia sulla mobilità attiva che sulla mobilità passiva, oltre che sul saldo fra le due. I dati del rapporto GIMBE sul tema sono del 2017.
Per mobilità sanitaria attiva si intendono le prestazioni erogate da ciascuna regione ai cittadini non residenti. In termini di performance di politiche pubbliche, è la capacità di una singola regione di attrarre pazienti da altre regioni, mentre in termini economici consiste nei crediti esigibili da questa.

Il podio della mobilità attiva è tutto occupato da regioni del Nord (Lombardia, Emilia Romagna e Veneto). Al quarto posto spicca una regione del Sud, il Lazio, cosa forse spiegabile per la presenza nella regione di ospedali che offrono determinate cure ad alta specializzazione. è stupefacente inoltre il fatto che il 98% del saldo attivo si concentri in 4 regioni del Nord (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Toscana).
Per mobilità sanitaria passiva si intendono invece tutte le prestazioni erogate ai cittadini al di fuori di una specifica regione di residenza. In termini di performance di politiche pubbliche, rappresenta l’indice di fuga di una singola regione, mentre in termini economici consiste nei debiti accumulati da questa.

Qui le differenze Nord-Sud sembrano essere più sfumate: nel podio sono presenti due regioni del Sud (Campania e Lazio), ma anche la Lombardia. Nonostante questa maggiore dispersività, il saldo passivo è maggiormente concentrato nelle regioni del Sud, con un valore del 77% (Puglia, Sicilia, Lazio e Campania). Va inoltre considerata una cosa: nell’Italia settentrionale, i pazienti si dirigono principalmente verso regioni confinanti (mobilità di prossimità); nell’Italia meridionale invece, i pazienti preferiscono per la maggior parte muoversi verso regioni del Nord.
Il saldo di ogni singola regione consiste nella differenza fra i suoi crediti (conseguenza della mobilità attiva) e debiti (conseguenza della mobilità passiva).

Se si eccettua il Molise, sono le sole regioni del Nord ad avere un saldo positivo. Nel complesso, le regioni del Sud ne escono con le ossa rotte: il valore della mobilità sanitaria regionale supera i 4 miliardi e mezzo, una percentuale apparentemente contenuta (4%) della spesa sanitaria totale (113 miliardi circa), ma che assume particolare rilevanza in termini di risorse regionali, sia in saldo positivo che negativo (la Lombardia guadagna 784 milioni la Calabria ne perde 281 e la Campania 318). Il risultato è principalmente una perversa redistribuzione di risorse dalle regioni più povere (Sud) alle regioni più ricche (Nord).
Speranza di vita e mortalità evitabile
Nonostante la mobilità sanitaria interregionale possa essere considerata un indicatore valido per misurare la qualità dei rispettivi sistemi sanitari regionali (un buon sistema sanitario regionale dovrebbe avere come risultato un saldo di mobilità tendenzialmente in attivo), essa ne misura più propriamente la qualità percepita da parte dei pazienti. Siccome la percezione può essere distorta, si potrebbe pensare che per esprimere un giudizio più preciso sia necessario cercare altri indicatori.
La speranza di vita è uno di questi. Essa corrisponde al numero medio di anni che una persona può aspettarsi di vivere al momento della nascita, numero che viene ovviamente influenzato anche dalla qualità dei servizi sanitari. La situazione che ci presentano i dati di Demoskopika (2019) è la seguente:

Qui possiamo vedere come la frattura Nord-Sud sia più sfumata, anche se comunque presente: la maggior parte delle regioni settentrionali ha punteggi più elevati della media mentre la maggior parte delle regioni meridionali li ha più bassi.
Indicatore ancora più preciso della speranza di vita è la mortalità evitabile. Se sulla speranza di vita possono agire altri fattori assieme al sistema sanitario, la mortalità evitabile è centrata su quest’unico fattore. Essa considera i decessi prematuri, ossia quei decessi che non dovrebbero verificarsi in presenza di cure appropriate e tempestive. In altri termini, comprende le morti attribuibili a condizioni per le quali esistono interventi diagnostico-terapeutici efficaci. Si misura rapportando i decessi per età e cause specifiche alla popolazione media residente (moltiplicando per 100.000) e si prende come valore di riferimento il valore nazionale. Qui purtroppo i dati più recenti che sono riuscito a trovare corrispondono al biennio 2014-2015 (Rapporto Osservasalute 2018).

Anche qui, ad eccezione delle Marche e dell’Umbria, è il Nord dove la mortalità evitabile è significativamente inferiore al valore nazionale (69,83 per 100.000 abitanti) in 9 regioni: Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Bolzano e Trento. Valori significativamente superiori si registrano invece in 5 regioni del Sud (Lazio, Abruzzo, Calabria, Sicilia e Campania). I valori più bassi e più alti tra le regioni si registrano, rispettivamente, nella provincia autonoma di Trento (50,81 per 100.000) e in Campania (89,83 per 100.000).
Conclusione
Con ciò credo di aver dimostrato l’esistenza di una Questione Meridionale Sanitaria. Non è una questione da poco: questo significa che all’atto pratico esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. La disattesa di un principio fondante del nostro SSN, l’eguaglianza di trattamento, si traduce in una doppia disparità: la diseguaglianza territoriale davanti al servizio pubblico, in quanto i cittadini del Nord hanno di fatto cure migliori di quelli del Meridione, e la diseguaglianza socio-economica nei servizi sanitari in generale, siccome i cittadini meridionali più poveri sono costretti ad accontentarsi della bassa qualità delle cure che passa il servizio pubblico del Sud, mentre chi è più ricco può permettersi prestazioni aggiuntive migliori.
Più che provare a cimentarmi nell’arduo compito di proporre soluzioni, vorrei fare due considerazioni. La prima è che, a differenza di quello che vuol far passare l’approccio economicistico, il semplice efficientamento delle politiche sanitarie regionali non è sufficiente a risolvere il problema.

Stando al sondaggio di Demoskopika, sul podio per i risulati d’esercizio si trovano la Basilicata e la Campania e dà in buono stato la Sicilia e la Puglia, che spesso, per altri indicatori che abbiamo visto, hanno ottenuto risultati insoddisfacenti. Inoltre, da comunista, mi sento di dover appoggiare una eventuale lotta delle regioni del Sud per l’inserimento di indicatori di che tengano conto delle condizioni socio-economiche della popolazione regionale nel momento della spartizione del Fondo Sanitario Nazionale. Naturalmente, maggiori risorse finanziarie non si traducono immediatamente in politiche sanitarie migliori, ma possono sicuramente dare maggior respiro e margine di manovra ai sistemi sanitari regionali più in difficoltà.
Fonti
Toth F., La Sanità in Italia, Il Mulino, Bologna, 2014
Dossier del Senato sulle fonti del FSN
Report Demoskopika sui sistemi sanitari regionali
Rapporto GIMBE sulla mobilità sanitaria interregionale
[…] Il Sistema Sanitario Italiano 2 – La Questione Meridionale Sanitaria […]
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