Antonio Gramsci – I Due Fascismi

Introduzione

In una fase in cui cricche di liberali ignoranti si permettono di equiparare il socialismo e il comunismo al fascismo senza ricevere come risposta meritate prese in giro, ma anzi avendo un discreto successo, è bene ricordare come le cose sono andate veramente. Ed è bene farlo con le parole di un pensatore che nelle carceri fasciste ci è morto.

In questo articolo, Antonio Gramsci analizza il fenomeno fascista in un periodo di riflusso del Biennio Rosso. Cosa stava succedendo? Dopo un periodo di vittorie socialiste (PSI primo partito alle elezioni del 1919, occupazione delle fabbriche nel nord, creazione di leghe rosse nel centro-nord e in Puglia) le attese rivoluzionarie furono deluse: un compromesso sindacale voluto dalla CGL e dagli esponenti più riformisti del partito socialista, favorito dalla mediazione giolittiana, mise fine allo scontro fra industriali e lavoratori. I socialisti ottennero, il 19 settembre del 1920, un progetto di controllo sindacale che nella pratica non troverà mai attuazione. I dissidi sulla gestione dell’occupazione delle fabbriche (assieme agli scontri sulle condizioni poste dal II Congresso del Comintern per partecipare all’Internazionale Comunista) furono così forti da spingere il gruppo bordighista (Napoli) e quello ordinovista (Torino) alla scissione. Da questi nasceva il 21 Gennaio 1921 il Partito Comunista d’Italia, ironicamente proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria andava scomparendo.

I borghesi, passato il periodo della “grande paura”, non ci misero molto a ribadire chi è che comanda nell’ordine liberale, e lo fecero con l’aiuto della canaglia fascista. A seguito dell’insuccesso dei Fasci di Combattimento e del loro confuso miscuglio sansepolcrista, Mussolini puntò a ingraziarsi i padroni fondando il movimento su strutture paramilitari atte a fare a pezzi il movimento socialista in Val Padana, zona in cui più forte era la presenza delle leghe rosse (la cosiddetta strategia del fascismo agrario). Lì, i socialisti controllavano il mercato del lavoro, avevano in mano gran parte delle amministrazioni comunali e disponevano di una fitta rete di cooperative.

Il primo atto della strategia fu la mobilitazione contro l’insediamento della nuova amministrazione bolognese a Palazzo Accursio. Durante gli scontri e le sparatorie, per un tragico errore, i socialisti incaricati di difendere il palazzo comunale spararono contro i loro stessi sostenitori. Da questo i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Lo sgomento dei socialisti e le sovvenzioni dei proprietari terrieri accrebbero la spavalderia delle bestie fasciste: partendo dalle città e spostandosi verso i centri rurali in camion, distruggevano sistematicamente municipi socialisti, camere del lavoro, sedi delle leghe, case del popolo e picchiavano dirigenti, militanti e consiglieri socialisti, spesso costretti a lasciare il loro paese. Centinaia di leghe rosse furono sciolte e i loro aderenti furono costretti ad entrare in organizzazioni costituite dagli stessi fascisti. Gli squadristi Bianchi in camicia nera vedevano nel contempo affluire nelle loro file ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nella vita civile, piccoli borghesi in cerca di promozione sociale e politica, giovani ubriacati di retorica nazionalista che non avevano fatto in tempo a combattere la Grande Guerra ma che volevano un’occasione per combattere contro i presunti nemici della patria. Il tutto sotto gli occhi della benevola neutralità, quando non dell’aperto sostegno, degli amministratori dell’ordine liberale: lo stesso Giolitti regalò ai fascisti legittimazione inserendoli nei blocchi nazionali (di cui facevano parte liberali e conservatori) alle elezioni del maggio 1921, mossa grazie al quale i cani dei padroni ottennero 35 deputati.

I socialisti, stremati, non seppero reagire. Il massimo che seppero fare fu la firma dei patti di pacificazione (generica rinuncia alla violenza da ambo le parti), patti che comportarono la sconfessione degli Arditi del Popolo (militanti socialisti e comunisti organizzatisi spontaneamente per difendersi dallo squadrismo) e che peraltro furono ripetutamente violati dai ras fascisti (come Grandi, Farinacci e Balbo), anche contro le indicazioni dello stesso Mussolini (che mirava a inserirsi pienamente nel gioco politico ufficiale).

Enunciato il contesto dell’articolo, non mi resta che commentare una previsione gramsciana. Egli affrma che: << Dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi. La parte parlamentare, capeggiata dal Mussolini, appoggiandosi sui ceti medi, impiegati e piccoli esercenti ed industriali, tenterà la loro organizzazione politica, orientandosi necessariamente verso una collaborazione coi socialisti e coi popolari. La parte intransigente, che esprime la necessità della difesa diretta e armata degli interessi capitalistici agrari proseguirà nella sua azione caratteristica antiproletaria. Per questa parte, la piú importante nei confronti della classe operaia, non avrà alcun valore il «patto di tregua» che i socialisti vantano come una vittoria. La «crisi» segnerà soltanto l’uscita dal movimento dei Fasci di una frazione di piccoli borghesi che hanno invano tentato di giustificare con un programma politico generale di «partito» il fascismo>>.

Noi sappiamo che non è andata come il pessimista della ragione ha predetto, anzi è finita anche peggio: i fascisti non si sono scissi (anzi, hanno addirittura fondato il PNF nel novembre del 1921!), e Mussolini ha saputo coniugare a una nuova ondata di violenza armata una manovra politica che lo porterà al potere con la complicità del Re, della Chiesa e degli industriali. Gramsci non sembra capire che i due fascismi non sono altro che due facce di una stessa medaglia: i gruppi paramilitari, in molti casi nati prima dei Fasci di Combattimento, furono non solo il nucleo costitutivo dell’intero movimento, ma anche i depositari dei suoi simboli e rituali e i custodi della vocazione politica totalitaria.

I Due Fascismi, 25 Agosto 1921

La crisi del fascismo, sulle cui origini e cause tanto si sta scrivendo in questi giorni, è facilmente spiegabile con un serio esame dello sviluppo stesso del movimento fascista.

I Fasci di combattimento nacquero, all’indomani della guerra, col carattere piccolo-borghese delle varie associazioni di reduci, sorte in quel tempo. Per il loro carattere di recisa opposizione al movimento socialista, eredità in parte delle lotte fra il Partito socialista e le associazioni interventiste nel periodo della guerra, i Fasci ottennero l’appoggio dei capitalisti e delle autorità. Il loro affermarsi, coincidendo colla necessità degli agrari di formarsi una guardia bianca contro il crescente prevalere delle organizzazioni operaie, permise al sistema di bande create ed armate dai latifondisti di assumere la stessa etichetta dei Fasci, alla quale conferirono col successivo sviluppo la stessa caratteristica loro di guardia bianca del capitalismo contro gli organi di classe del proletariato.

Il fascismo conservò sempre questo vizio d’origine. Il fervore dell’offensiva armata impedí fino ad oggi l’aggravarsi del dissidio fra i nuclei urbani, piccolo-borghesi, prevalentemente parlamentari e collaborazionisti, e quelli rurali, formati da proprietari terrieri grandi e medi e dagli stessi coloni, interessati alla lotta contro i contadini poveri e le loro organizzazioni, recisamente antisindacali, reazionari, piú fiduciosi nell’azione armata diretta che nell’autorità dello Stato e nell’efficacia del parlamentarismo.

Nelle zone agricole (Emilia, Toscana, Veneto, Umbria), il fascismo ebbe il maggior sviluppo, raggiungendo, coll’appoggio finanziario dei capitalisti e la protezione delle autorità civili e militari dello Stato, un potere senza condizioni. Se da una parte l’offensiva spietata contro gli organismi di classe del proletariato è servita ai capitalisti, che nel volgere di un anno poterono vedere tutto l’apparecchio di lotta dei sindacati socialisti infrangersi e perdere ogni efficacia, è innegabile però che la violenza, degenerando, ha finito per creare al fascismo un’opinione diffusa di ostilità nei ceti medi e popolari.

Gli episodi di Sarzana, Treviso, Viterbo, Roccastrada scossero profondamente i nuclei fascisti urbani, personificati in Mussolini, che cominciarono a vedere un pericolo nella tattica esclusivamente negativa dei Fasci delle zone agricole. D’altra parte questa tattica aveva già dato ottimi frutti trascinando il Partito socialista su un terreno transigente e favorevole alla collaborazione nel paese ed in Parlamento.

Il dissidio latente comincia da questo momento a manifestarsi in tutta la sua profondità. Mentre i nuclei urbani, collaborazionisti, vedono ormai raggiunto l’obiettivo, propostosi, dell’abbandono dell’intransigenza classista da parte del Partito socialista, e si affrettano a verbalizzare la vittoria col patto di pacificazione, i capitalisti agrari non possono rinunziare alla sola tattica che assicura loro il «libero» sfruttamento delle classi contadine, senza seccature di scioperi e di organizzazioni. Tutta la polemica che commuove il campo fascista, fra favorevoli e contrari alla pacificazione, si riduce a questo dissidio, le cui origini non si debbono ricercare che nelle origini stesse del movimento fascista.

Le pretese dei socialisti italiani, di aver cioè essi provocata la scissione nel movimento fascista colla loro abile politica di compromesso, sono nient’altro che una riprova del loro demagogismo. In realtà la crisi fascista non è di oggi, ma di sempre. Cessate le ragioni contingenti che mantenevano compatte le schiere antiproletarie, era fatale che i dissidi si manifestassero con maggior evidenza. La crisi è quindi niente altro che il chiarirsi di una situazione di fatto preesistente.

Dalla crisi il fascismo uscirà scindendosi. La parte parlamentare, capeggiata dal Mussolini, appoggiandosi sui ceti medi, impiegati e piccoli esercenti ed industriali, tenterà la loro organizzazione politica, orientandosi necessariamente verso una collaborazione coi socialisti e coi popolari. La parte intransigente, che esprime la necessità della difesa diretta e armata degli interessi capitalistici agrari proseguirà nella sua azione caratteristica antiproletaria. Per questa parte, la piú importante nei confronti della classe operaia, non avrà alcun valore il «patto di tregua» che i socialisti vantano come una vittoria. La «crisi» segnerà soltanto l’uscita dal movimento dei Fasci di una frazione di piccoli borghesi che hanno invano tentato di giustificare con un programma politico generale di «partito» il fascismo.

Ma il fascismo, quello vero, che i contadini e gli operai emiliani, veneti, toscani conoscono per la dolorosa esperienza degli ultimi due anni di terrore bianco, continuerà, anche magari cambiando il nome.

Compito degli operai e dei contadini rivoluzionari è di approfittare del periodo di relativa sosta, determinata dai dissidi interni delle bande fasciste, per infondere alle masse oppresse ed inermi una chiara coscienza della reale situazione della lotta di classe e dei mezzi adatti a vincere la baldanzosa reazione capitalistica.

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